Alice Rohrwacher costruisce un'opera spiazzante, grazie anche al sapiente uso dell'ironia.
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Non sarà Lazzaro felice (guarda la video recensione) a ricomporre la faglia che permane tra grande pubblico e cinema d'autore, o tra sostenitori del nuovo realismo e critici che vorrebbero film più attenti al gusto degli spettatori. Nulla di male, Alice Rohrwacher difende orgogliosamente il proprio linguaggio, e non rimane certo inascoltata, visti i premi che continua a mietere e la recente Palma per la miglior sceneggiatura ottenuta a Cannes 2018.
Certo, rimane qualche perplessità di fronte a scelte così divaganti e talvolta a rischio di pamphlet contro la contemporaneità, da cui pare essere attraversato Lazzaro felice, ma poi le intuizioni che spiazzano ogni volta mettono al riparo l'opera dalle cadute più vistose, anche grazie a un uso molto sapiente dell'ironia e talvolta del comico.
Nella nostra storia, il puro è stato spesso messo in scena, per esempio da Pier Paolo Pasolini, che li cercava nel sotto proletariato o che rovesciava figure sacre (come il Cristo di Il Vangelo secondo Matteo) per riportarne la figura dentro i confini della cultura folclorica ed etnica. Diverso il caso del ragazzo ingenuo e a contatto con le culture contadine, caro certamente a Ermanno Olmi (cui Lazzaro felice è stato spesso avvicinato, forse non sempre per buone ragioni) e di più al primo Pupi Avati, che ci sembra più pertinente come orizzonte almeno nella parte iniziale del lavoro di Alice Rohrwacher.
Il puro, però, nel cinema italiano (pensiamo anche al Francesco giullare di Dio di Rossellini) è stato un mezzo per raggiungere due risultati contrapposti: avvicinare alla comprensione popolare un sentimento religioso, magari vago e misterioso, ma portatore di sensibilità ed empatia. Oppure per far saltare la gabbia ideologica della classe borghese, e qui torniamo a Pasolini (Teorema) o, per rimanere in area, a Sergio Citti, che pare davvero l'influenza più forte della seconda parte, quella urbana, di Lazzaro felice.
Lazzaro, nella versione dell'autrice, sembra situarsi a metà strada tra le due tradizioni. La sua ottusità è certamente in odor di santità, eppure fa di lui un subalterno di classe: prima vessato dalla Marchesa e tenuto nell'ignoranza insieme alla cinquantina di contadini che lo usano come schiavo tra gli schiavi, poi nuovamente strumento per truffe e pronto a qualsiasi servizio gli venga richiesto. La sua resurrezione ha un significato sfuggente, non sembra in grado di avere alcuna funzione nella vita quotidiana delle persone e tutto viene ridotto quasi sempre alla sua utilità ("Anche un fantasma deve lavorare", dice a un certo punto una vecchia sospettosa).
La fine del sacro nella nostra cultura? La vita contadina può resistere solamente se imprigionata in una bolla temporale, come se fossimo in The Village di M. Night Shyamalan? Insomma, Lazzaro felice sembra un'opera profondamente pessimista. Dalle forme cinematografiche, invece, vengono le note più interessanti: il ricorso alla pellicola e a formati e luminosità che ci riportano al documentario degli anni Sessanta; la precisione antropologica dei volti e dei luoghi; l'attenzione per i dettagli, i costumi e le scenografie, che saccheggiano prima l'iconografia della letteratura contadina (con qualche ricordo di Gavino Ledda) e poi l'orrore della periferia urbana degli esclusi; e molto altro.
Imperscrutabile invece il misticismo diffuso, e forse anche l'atteggiamento della regista, che sembra voler compensare i rischi dell'allegoria con dialoghi che ironizzano autoriflessivamente sul testo stesso: "Siete due parodie!" urla l'avvocato a un certo punto additando Lazzaro e Tancredi, strana coppia fuori dal tempo e dal mondo. Come a dire: di fronte a tutti i grandi esempi del cinema italiano cui Alice Rohrwacher guarda come serbatoio mitologico, sappiamo bene di essere al tempo stesso allievi e caricature.